Il marmo: le tecniche di escavazione
Fin dall’antichità, sono stati diversi i metodi utilizzati per estrarre il marmo dalle cave, benché il più sostanziale sviluppo delle tecniche di escavazione si sia registrato solo negli ultimi cento-centocinquant’anni. La fase di “taglio” è quella in cui la “bancata” di marmo (ovvero la porzione da cui verranno ricavati i blocchi) viene fisicamente staccata dalla montagna, ma prima che ciò avvenga, la parete dev’essere adeguatamente preparata affinché ci sia il minor spreco possibile e la “coltivazione” della cava (che deve seguire un disegno preciso a seconda del tipo di cava) possa proseguire in modo regolare. Si procede dunque con una precisa delimitazione che tiene conto dello spessore della parete, della direzione che deve assumere il taglio, della distribuzione delle eventuali fenditure naturali della roccia, della resa in blocchi a cui la bancata può giungere, della continuità di colore e disegno del marmo.
Anticamente, in epoca romana, quando iniziò lo sfruttamento delle cave di Carrara, il taglio avveniva con metodi manuali che staccavano il banco di marmo dal monte per frattura. La tecnica più antica era quella della “tagliata”: i cavatori, attraverso l’uso di scalpelli, creavano dei solchi nella roccia, soprattutto laddove trovavano fratture o crepe preesistenti, ottenendo una linea di taglio a V che veniva quindi forzata con elementi in metallo (cunei di ferro) in modo da ottenere una profonda fenditura che causava il distacco della bancata di marmo. Altra tecnica, più rozza, era quella dello spacco mediante cunei di legno: nella linea di taglio venivano inseriti dei cunei in legno che venivano poi bagnati con acqua, in modo che la dilatazione del legno facesse gonfiare i cunei, che si allargavano fino a rompere il marmo comportando il distacco della bancata.
Le tecniche manuali rimasero in uso per secoli, fino all’invenzione della polvere pirica, che trovò largo impiego nell’estrazione del marmo. L’estrazione mediante mine, massicciamente utilizzata fino ai primi del Novecento, permetteva il distacco di enormi porzioni di materiale in un tempo relativamente breve: la tecnica della “varata” (così era detta l’operazione di distacco di grandi bancate tramite mine), risalente al XIX secolo, a seconda delle dimensioni che poteva assumere, finiva col diventare un evento spettacolare da raccontare, tanto che nell’estate del 1907 Gabriele D’Annunzio fu invitato da un suo ex compagno di scuola del liceo Cicognini di Prato, il proprietario di cava Giovanni Cucchiari, per assistere allo “scoppio di una mina” che si stava preparando a Colonnata.
Per preparare la varata venivano praticati dei fori profondi nel marmo, all’interno dei quali veniva inserita la mina, una carica di esplosivo collegata a un detonatore. Il tratto di foro che rimaneva libero (“borraggio”) veniva riempito con sabbia o roccia tritata al fine di contenere l’impatto dell’esplosione. Un segnale di tromba avvisava i cavatori di mettersi al riparo, quindi la carica veniva fatta deflagrare. La bancata scivolava staccandosi dal monte, così da consentire ai cavatori di profilarla per ricavarne i blocchi.
Il problema della varata consisteva nel grande spreco di materiale che ne risultava: si passò quindi a tipi d’esplosione più controllati, con cariche disposte in maniera tale da comportare un distacco più preciso dei massi di marmo (per esempio attraverso l’utilizzo di cariche lineari). L’uso di esplosivi viene tuttora impiegato, quando si tratta di mettere in sicurezza un fronte di cava rimuovendo materiale che potrebbe comportare rischi, oppure per facilitare il distacco di bancate già profilate con metodi moderni.
Questi ultimi sono sostanzialmente metodi di tipo meccanico e furono introdotti verso gli inizi del Novecento, anche se alcune sperimentazioni erano già state condotte alla fine del secolo precedente. I nuovi metodi consentirono l’abbandono delle tecniche di distacco per frattura o per esplosione e diedero il via al distacco “per taglio”, che consentiva di ottenere bancate profilate con grande precisione e con il minor spreco possibile. Il primo di tali metodi era il taglio con il filo elicoidale: si trattava di un cavo di circa 5 millimetri di diametro con fili d’acciaio avvolti a elica. Nelle scanalature del filo veniva disposta una soluzione d’acqua e materiali abrasivi: il filo, collegato a un impianto a motore, veniva messo in tensione e quindi fatto scorrere (a una velocità che negli impianti più innovativi poteva raggiungere i quattordici metri al secondo) attraverso il marmo lungo la linea di taglio. Il filo elicoidale si diffuse rapidamente anche perché consentiva di praticare tagli di diverso tipo, lunghezza e direzione.
Il metodo più moderno nonché quello più diffuso oggi in tutte le cave è il taglio con filo diamantato, introdotto verso la fine degli anni Settanta nelle cave di Carrara (benché le sperimentazioni fossero partite già nel decennio precedente). Il principio è lo stesso del filo elicoidale, ma sul cavo d’acciaio vengono infilati dei piccoli cilindri d’acciaio, detti “perline”, ricoperti di strati di diamante per uso industriale, materiale che, in virtù delle sue proprietà di durezza, consente risultati di gran lunga più efficaci. Esistono altri metodi di taglio, benché meno diffusi: il taglio a catena avviene mediante l’utilizzo di macchinari che fanno scorrere nella roccia catene dentate, mentre il taglio a perforazione continua avviene attraverso la realizzazione di fori paralleli nella bancata che creano una fenditura continua che consentirà il distacco. Ancora, esistono tagliatrici a disco, che tagliano il marmo tramite dischi tentati, e tagliatrici a getto d’acqua, che sfruttano l’azione tagliente di getti d’acqua ad alta velocità e alta pressione.